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Recensione di: Fino all'ultimo respiro - À bout de souffle

08/12/2010 | Recensioni |
Recensione di: Fino all'ultimo respiro - À bout de souffle

La rincorsa cinematografica al '68 inizia almeno 10 anni prima, quando una manipolo di critici della giovane  rivista Les Cahiers du cinéma, fondata nel 1951 da André Bazin, irrompono sulla scena cinematografica come registi. Nonostante gli esordi folgoranti di Truffaut (Les quatre-cents coups, vincitore del Gran premio per la miglior regia al Festival di Cannes 1959) e di Alain Resnais (che però non viene dai Cahiers) con Hiroshima mon amour nello stesso anno, quella che sarà chiamata Nouvelle vague trova il suo vero battesimo cinematografico con l'esordio di Jean-luc Godard (in coppia con Truffaut alla sceneggiatura e Chabrol per la scenografia): À bout de souffle.
E proprio come un'onda, Fino all'ultimo respiro travolge e distrugge, disorienta e confonde. Inzia così una corsa disperata verso la salvezza, una corsa fino all'ultimo respiro. 
Il cinema con Godard diventa questione di vita o di morte, qualcosa a cui non è possibile sottrarsi nel bene o nel male. Un carrello assurge allora una questione morale, citando lo stesso Godard: si mette in gioco la propria essenza e la propria coscienza in nome del cinema che è vita. Viene così a cadere anche la barriera dello schermo cinematografico: il cinema si rivolge direttamente a noi spettatori introducendoci a tutti gli effetti nel processo creativo, interlocutori privileggiati tanto del cineasta, tanto dei protagonisti del film (più volte, infatti, Michel/Belmondo infrange la realtà filmica annullando il distacco fisico e spirtuale film-fruitore rivolgendosi direttamente allo spettatore).
L'effetto è straniante: Godard crea dal nulla una dimensione altra, frenetica e disturbante che distrugge e manda in mille pezzi tutti i canoni del cinema classico e con esso il modo stesso di concepire il cinema. Una dimensione che si concretizza nelle parole e nei gesti, negli oggetti e nei movimenti incasellati in un montaggio frenetico e destabilizzante e in una struttura filmica a binocolo. Si procede a ritroso in questo binocolo, dall'oggetto osservato al soggetto osservante, al suo occhio che scruta attraverso la lente: la corsa si fa incessante e procede per sottrazione e rallentamento. Gli ambienti si ristringono, il montaggio rallenta e il tempo si dilata fino a fermarsi. La corsa si trasforma così in rin-corsa: la vita si consuma nell'affannato procedere di Michel verso l'ineluttabile morte. Cinema, vita e morte vengono ad identificarsi: il fotogramma diventa respiro, la camera è Michel e viceversa. Laddove finisce il cinema finisce tutto: nel primo piano di Patrizia e nell'ultima sentenza di Michel ("Fa tutto schifo", trasformata dal poliziotto in "Tu mi fai schifo" rivolto a Patrizia) si consuma la (rin)corsa all'ultimo respiro, fino a privarcene, mandando in nero.
Il cinema diventa allora questione di vita e di morte; ma sono tutti termini della stessa equazione di cui il cinema è però il minimo comun denominatore.
In questa rin-corsa tutto di distrugge e niente rimane indenne nel procedere ineluttabile della nuova ondata che decostruisce e si decostruisce: sono i primi semi di una rivolta di spirito all'esistente, ore prefigurata come individuale, quindi collettiva negli anni a venire. Non ci si può fermare: si va avanti tra lo sberleffo e la provocazione, tra le (auto)citazioni e i richiami, tra gli ammiccamenti e le ripetizioni in un susseguirsi frenetico e (apparentemente) anarchico di flussi cine-vitali fino a che non ci si rende conto che quello che stavamo rincorrendo (e da cui stavamo fuggendo) altro non era la morte e che tutto, in fondo, fa schifo. Compresa Jean Seberg.
 
Lorenzo Conte
 

 


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